Portella della Ginestra ,01 maggio 2001

Intervento di Claudo Sabattini dal palco del Primo Maggio

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Intervento di Claudio Sabattini – segretario generale Fiom-Cgil

È molto difficile pensare, in questi tempi, che il Primo maggio, che pure è la rappresentazione di una grande vittoria dei lavoratori nel mondo, possa continuare a essere una festa, ma il Primo maggio è certamente una festa.

Il 1° maggio del 1947 questa festa si trasformò in un’orrenda strage, guidata e voluta, perché fosse chiaro che il movimento contadino non poteva pretendere di trasformare la Sicilia. Gli antichi poteri – che pure si sono tramandati nel tempo fino a noi – decisero che per continuare a comandare, il loro antagonista, le lotte contadine, dovevano essere duramente colpite affinché non potessero più nuocere.

La storia del Dopoguerra ha visto sempre i metalmeccanici – che quest’anno celebrano i loro cento anni – ma in generale tutti i lavoratori italiani, operai, contadini, lavoratori di tutte le parti dell’economia, combattere duramente per conquistare cose piccole, a volte più grandi, ma comunque per mantenere fino in fondo una linea di trasformazione della società capitalistica che è incompatibile con la libertà dei lavoratori.

Noi siamo questa storia. Abbiamo iniziato nel 1901 e forse diversamente da altri l’abbiamo fatto consapevoli che non c’erano piccole classi che si muovevano contro questo o quel padrone. La Fiom inizia la sua storia proprio su due punti basilari che saranno poi al centro della sua vita per tutta la sua storia, quella che è passata e quella che verrà: i punti basilari sono quelli che per i metalmeccanici, allora metallurgici, comunque metalmeccanici, per questa categoria, che aveva tante branche nella produzione industriale e si affermava come la categoria di punta del ‘900, per questa categoria non era sufficiente né è mai stato sufficiente pensare che si potessero conquistare posizioni nuove, importanti, certo questo lo si doveva fare nell’ambito della fabbrica e della società, ma la Fiom contemporaneamente, fin dall’inizio, fin dai suoi fondatori ha sempre pensato che trasformare, contrattare, combattere per i diritti e combattere per il salario, combattere per la propria esistenza voleva anche dire e presupponeva in qualche modo pensare che queste lotte, questi diritti, queste possibilità, sarebbero state possibili solo alla condizione, necessaria, di una grande trasformazione della società italiana ed europea senza la quale questi diritti e queste possibilità potevano sempre essere messe in discussione perché il capitalismo del primo Novecento non diverge di più dal capitalismo di oggi. Il capitalismo del primo Novecento, il capitalismo manchesteriano, aveva un unico filo fondamentale, i profitti, senza i quali e attraverso i quali tutto doveva diventare merce, tutto occorreva poterlo comprare, tutto aveva un prezzo, fino a quello estremo della vita. Ciò che è stato detto qui dalla compagna (Maria Tinervia, vedova di un operaio morto sul lavoro a Palermo, ndr) è la più chiara rappresentazione di tutto questo, il lavoratore deve metterci la vita, il lavoratore deve essere a tal punto dedito all’impresa che deve sacrificare ciò che ha di più chiaro per mantenere il suo posto di lavoro, per difendere la sua possibile condizione.

È in questo che vi è un’incredibile ipocrisia sulle questioni della salute e quindi della sicurezza. Tutti sanno che ci sono centinaia di migliaia di luoghi di lavoro, di stabilimenti, nel nostro paese, industriali e non, che non possono dare sicurezza. Tutti sanno che in qualsiasi momento è probabile che un lavoratore possa cadere e morire, tutti sanno che per poter impedire una cosa di questo genere è necessario trasformare profondamente questi luoghi di lavoro, questi stabilimenti di lavoro: ma trasformarli costa, se costa si fanno meno profitti. Le lavoratrici e i lavoratori muoiono e continueranno a morire fino a che non sarà chiaro per tutti noi che la battaglia per la sicurezza e per la salute è una battaglia a tal punto fondamentale, e nasce dai posti di lavoro, che assomiglia tanto alla battaglia per una vita libera e dignitosa e questo basta per essere contro questi padroni, per essere contro questo capitalismo rampante che in realtà porta dietro di sé una storia fatta di sfruttamento e una storia fatta di bassi salari e una storia fatta sempre per colpire le condizioni di lavoro di tutti i lavoratori, a partire dai lavoratori metalmeccanci.

Ora, con molta tranquillità, io penso che improvvisamente è apparsa da qualche anno nel nostro paese una nuova cultura, che ha ovviamente una storia, che qualcuno ha chiamato «il pensiero unico»; il pensiero cioè che dopo la fine dell’Unione sovietica il capitalismo ha avuto la possibilità di espandersi in tutte le parti del mondo. Questo capitalismo ha cominciato a dire che si fondava sulla libertà, sulla libertà del mercato e dell’impresa, e quindi su questa libertà creava i suoi destini e le sue possibilità. Ora bisogna essere molto precisi su questo argomento: noi non ci troviamo di fronte a una forma nuova, non ci troviamo cioè di fronte a un sistema che improvvisamente è spuntato, alla fine degli anni 80, e che oggi ci viene presentato nella sua faccia migliore. Noi ci troviamo di fronte a un capitalismo che si è ricostruito sulla base di grandi innovazioni tecnologiche e organizzative e sulla base di questo ha aperto una strada assolutamente nuova ma feroce, e questa strada è ancora di più la strada di chi dice non solo che il lavoratore è merce, ma che il lavoratore, nel momento in cui non è più utile per i profitti, deve essere licenziato. Non era mai successo nelle borse americane, come in quelle nazionali d’altra parte, che quando un titolo cade perché perde valore riprenderà valore nel momento in cui il manager di quella grande multinazionale dirà che ha licenziato 30, 40.000 lavoratori: in quel momento la Borsa brinda, il fatto che sono stati licenziati 40.000 lavoratori vuol dire che i profitti cresceranno e allora «viva i profitti!», se i 40.000 lavoratori non troveranno nessun’altra possibilità potranno sempre pensare che per metà del loro salario qualcun altro li prenderà, sempre, naturalmente, a tempo determinato.

Ora, di fronte a tutto questo, cosa sta succedendo nel profondo della società italiana? In grandi imprese, che coinvolgono anche la vostra regione, sta persino succedendo che ci sono giovani laureati informatici che hanno avuto la possibilità anche di un salario elevato e di poter lavorare per queste grandi imprese internazionali – parlo dell’Ericsson, ma potrei parlare dell’Ibm come della Cisco e di altre grandi multinazionali – che gli hanno fatto produrre il telefonino, che è una cosa che si è diffusa dappertutto. Però il telefonino non dà più profitti, dobbiamo inventare un’altra cosa, presto fatto, ecco l’Umts, cioè un nuovo telefonino che si collega con tutto e che ti fa persino vedere con chi stai parlando. Nel momento in cui succede questo però che cosa capita all’Ericsson: dei 2.000 lavoratori, la metà sono obsoleti, sanno fare solo i telefonini, ci vogliono nuovi lavoratori che sappiano fare l’Umts, il nuovo. Quei lavoratori sono obsoleti, hanno 25, 27 anni, devono lasciare il posto a lavoratori più giovani, a lavoratori più precari, a lavoratori però che devono combattere duramente tutte le loro giornate per conquistarsi quel posto di lavoro sapendo che il prossimo prodotto li renderà obsoleti e quindi verranno liquidati dalla produzione.

Che cosa c’è di nuovo e di vecchio in tutto questo? In che senso questa storia sociale che stiamo raccontando sarebbe la modernità? È moderno giocare tutte le partite sociali per il profitto massimo? È moderno che i lavoratori magari dopo 2 o 3 anni vengono licenziati perché ci sono dei nuovi che costano meno o che produrranno di più? È moderno che chi lavora nelle imprese delle grandi produzioni di massa a 40, 45 anni viene messo in mobilità per la pensione mentre contemporaneamente la Confindustria dichiara che gli stessi lavoratori dovrebbero lavorare fino a 70 anni?

La modernità non può essere più un fatto dell’Europa, o un fatto degli Stati Uniti, o del Giappone. Se è vero come è vero che siamo di fronte a un sistema planetario, la modernità deve coinvolgere tutti, deve rendere tutti protagonisti della loro capacità di evolvere positivamente. È su questo argomento di fondo che noi stiamo discutendo e prospettando; non ci sarà nessuna possibilità di futuro fino a che non sarà possibile – e qui si ritorna alle forze del lavoro, dell’agricoltura come dell’industria, come del pubblico impiego come dei servizi – che i lavoratori siano padroni della loro condizione di lavoro. Fino a che i lavoratori non avranno nessuna possibilità di contare dentro l’impresa non saranno in grado di contrattare con la loro controparte e non saranno in grado di produrre uno sviluppo e un processo positivo che sia certo sviluppo della tecnologia, certo sviluppo dell’industria, ma contemporaneamente sviluppo del lavoro, della sua ricchezza, della sua civiltà, della sua capacità di rapportarsi con gli altri, della sua socialità.

E allora io credo che a quei giovani che oggi entrano nelle fabbriche – soprattutto quelle ad alto contenuto tecnologico – e che pensano che l’unica loro possibilità sia quella di identificarsi con l’impresa, bisogna dire che la loro solitudine, che la loro incapacità di vedere il futuro ma di «vivere in un eterno presente», possono essere superate da un fatto elementare che però è sempre stato combattuto con una durezza infinita: mettersi insieme, lottare insieme. Questo fatto elementare che nel ‘900 si è chiamato sindacato – e che continuerà a chiamarsi così – è il primo tentativo di dare sicurezza a tutti coloro che sono costretti alla solitudine, che sono costretti alla competizione con gli altri, che sono costretti a pensare a un eterno presente. Il futuro è una cosa che si conquista collettivamente e socialmente, ciascuno non può decidere il proprio futuro, non è possibile, il rischio è vivere in un eterno presente o, peggio, regredire in un eterno passato.

Io credo che noi siamo di fronte a sfide effettive di civiltà. Noi siamo cioè in una fase in cui tutto può proseguire, l’idea che avevano i grandi economisti del ‘900 era che comunque ci sarebbe stato un progresso. Non è assolutamente vero che la storia si muoverà esclusivamente progredendo positivamente. La storia si può evolvere anche al rovescio, ritornando indietro, o per meglio dire ricostruendo condizioni di oppressione e di sfruttamento che non si sono verificate nel corso della storia precedente. Come dicono i padroni giapponesi: «se non ho l’anima del lavoratore giapponese non ho nulla». Il lavoratore giapponese non dà solo le sue bracce e la sua intelligenza, dà l’anima all’impresa perché l’anima vuol dire che a quel punto sarà perfettamente coeso con l’impresa e tutto ciò che farà avrà come unico obiettivo gli obiettivi dell’impresa.

Una società come quella italiana ha una storia e una memoria che non ci dicono di ritornare indietro per celebrare, ci dicono che la memoria è l’impulso fondamentale per andare avanti, perché chi non ha memoria farà tutti gli errori che la memoria gli avrebbe impedito di fare.

In questo momento noi ci troviamo nella situazione sociale e politica in cui vi è un fronte che si sta costruendo con durezza: quello dell’imprenditoria italiana, di quella più potente, capeggiata da D’Amato, dalla Confindustria. Questo fronte, che ha un arco di rappresentanza politica molto vasto, indica le strategie e le traiettorie della socità italiana; questa Confindustria indica alle forze che le sono vicine quale sarà l’unico mezzo che renderà possibile lo sviluppo di questa società, che non sarà l’innovazione, non sarà il miglioramento delle condizioni di lavoro, non sarà il miglioramento della qualità della vita e della qualità del lavoro, ma sarà sempre la competizione con i più forti, e per competere con i più forti, per mantenere alti i profitti, il prezzo lo pagheranno solo i lavoratori e le lavoratrici, con la vita, con lo sfruttamento, con le peggiori condizioni di lavoro.

Ottimisticamente, io penso che tale è la carica di storia, tale è il fondamento della nostra esistenza, tale è il fondamento delle nostre possibilità che questa sfida è possibile vincerla, ma questa sfida ci fa apparire – come in un quadro – gli aspetti più oscuri della storia italiana: ci fa apparire che c’è uno solo che comanda, ci fa apparire che la democrazia è un fatto formale ma che non dà sostanza e partecipazione, ci fa capire che tutto sommato solo l’imprenditore può avere un destino in questa società perché lui stesso è un imprenditore e quindi non parla dei lavoratori e delle lavoratrici ma dei milioni, dei miliardi che ha guadagnato sfruttando lavoratori e lavoratrici e, paradossalmente, è diventato persino un operaio e quindi da operaio dice che rappresenta tutti, operai, imprenditori, tutte le categorie possibili.

Per concludere, io sono convinto che non tutti possono celebrare il Primo maggio del ’47, quelli che non lo celebrarono allora non lo possono celebrare neanche oggi. Questa è una storia che divide, ma il mondo è diviso, combatte per lo sviluppo, per il progresso, combatte per la reazione e la conservazione, non c’è possibilità idilliaca davanti a noi, ci sono lotte, battaglie, intelligenze e progetti. È in questo che noi pensiamo che la nostra storia è solo all’inizio, e noi pensiamo – forse – che questa storia non finirà ma, se finisse, non sarebbe più la storia di nessuno.

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